Amore tormentato
Spettacolo liberamente tratto dalla corrispondenza della scultrice francese Claude a Rodin

C’è un rispettoso, toccante silenzio nel cortile d’onore della Biblioteca Sormani, ad accompagnare l’ intenso monologo teatrale Moi, interpretato dall’attrice Lisa Galantini, scritto da Chiara Pasetti con la regia di Alberto Giusta, portato in scena nell’estate milanese (nell’ambito della rassegna organizzata dal Teatro Menotti in collaborazione con l’ assessorato alla Cultura, la Fondazione Luzzati e il Teatro della Tosse di Genova).per dare voce a Camille Claudel (1864-1943) una delle scultrici di maggior talento, geniale e appassionata, allieva prediletta dello sculture Auguste Rodin con cui ebbe una relazione travolgente e tormentata (alcune fonti parlano anche di una gravidanza interrotta), rinchiusa dalla madre e dal fratello Paul, celebre poeta, cattolicissimo, e ambasciatore, per trent’anni in un ospedale psichiatrico, nonostante i dubbi dei medici che non riconoscevano in Camille particolari disagi psichici.
Camille morirà sola, abbandonata da tutti, dopo trent’anni di internamento il 19 ottobre del 1943. La madre non andrà mai a trovarla, e impedisce ogni tipo di visita alla figlia. Neppure la sorella Louise. Il fratello Paul sette volte in trent’anni. Talentuosa, appassionata, “dal temperamento selvaggio (così la descrive Rodin), in Camille non esiste mai quiete o abbandono, scolpisce giorno e notte, come posseduta da un furore (che la madre disapprova). Per lei la scultura è tutto. Nei lunghi anni di internamento, rigettata e abbandonata, non scolpisce più, non ha più niente da vivere. Sconta “il delitto di avere voluto vivere libera”. Tragico paradosso: lei che scolpì il vertiginoso movimento dei corpi, il groviglio delle passioni, si ritrova immobilizzata.
La sua figura di artista e la sua terribile storia riscoperta solo di recente- hanno catturato l’attenzione e il coinvolgimento del pubblico in un crescendo drammatico di intensità emotiva che ha colpito al cuore. Reso magistralmente da Galantini, brava nella sincerità espressiva con la quale l’attrice riesce ad alternare passione, rabbia, furore, tormento, intensa dolcezza e ben più opprimente la sua terribile solitudine. La scrittura di Chiara Pasetti ha la potenza del bronzo e con martello e scalpello, fa uscire Camille dallo stereotipo dell’allieva folle e talentuosa all’ombra del grande maestro per mostrarne la tragica grandiosità. “Mi sono accostata alle sue opere con ammirazione e passione, e alla sua vita (e alla sua morte) con un misto di rispetto e di rabbia per ciò che ha subito”, racconta la scrittrice, drammaturga, che ha pubblicato recentemente Mademoiselle Camille Claudel per le edizioni Aragno che contiene anche il testo scritto per il monologo teatrale MOI portato in scena.
Siamo nel primo decennio del 1900. Una stanza in disordine. Sculture non finite in gesso intorno. Camille/Lisa indossa mutandoni di cotone bianchi, fermati a vita da cordoncini nell’estremità inferiore, decorati con pizzi e ricami e una camicia smanicata come si usava ai tempi della Belle Epoque. Sui lunghi capelli castani spettinati un fiocco di velluto rosso posto di lato pende tristemente all’ ingiù. Si allunga sul tavolo, vi si sdraia sopra, con aria di sfida. Parla con quel fuoco ardente, quella bramosia, quel bisogno di spingersi sempre più in là, di scoprire quello che le mani possono creare. Quasi tutto ciò che vede e sente la travolge intensamente. Anche la passione e il rancore per August Rodin. Afferra una scopa come se volesse cacciare fuori di casa qualcuno. “Ecco, così le mie opere sono al sicuro”. Poi, a un tratto, si accascia su se stessa. “Mamma, tu non mi hai mai voluto, non mi hai mai amato. Volevi un maschio”. Si mette in ginocchio, tende le braccia, appoggia le mani per terra. Prende in mano dell’argilla che trova per terra, la modella, la appallottola. “Se solo riuscissi a tornare nella mia terra, a toccare la mia argilla, la mia materia, affondare le mani nel fango, sporcarmi, stancarmi”. Piange con rabbia e distrugge a colpi di martello le sculture presenti nella stanza.
Cambio di scena. Camille-Lisa ha l’aria stravolta, stanchissima e terrorizzata. “Dove mi avete portato? “Guarda verso la porta, da cui non entra nessuno. Il 10 marzo del 1913, pochi giorni dopo la morte del padre (che aveva sempre cercato di aiutarla, e di cui la giovane non venne informata), due uomini sfondano la porta dell’atelier dell’Île Saint-Louis 19 di Quai Bourbon, e con forza viene rinchiusa nella clinica psichiatrica di Ville-Évrard. Inizia la lunghissima notte dell’internamento. Le sue opere e la sua arte sono solo ricordi di emozioni ormai lontane. Sono strazianti – e il testo con la messa in scena ne danno il giusto risalto-le lettere che da quel luogo di reclusione Camille scrive, alla madre e al fratello, in cui emerge tutta la sua lucidità di pensiero e l’atrocità della sua condizione. Lettere che non ebbero risposta. “Dal sogno che è stata la mia vita, ora è rimasto solo l’incubo […]. Da cosa deriva tanta ferocia umana […]. Prometto che mai più recherò scandalo a voi. Non farei più nulla di disdicevole perché ho troppo sofferto”. Si raggomitola su se stessa. “Mi hanno tolto il solo amore che poteva durare. No, non Rodin, la mia arte”. Camille/Lisa è immobile sulla sedia. Infagottata in un abito sgualcito. Si sente la voce dell’attrice fuori campo, registrata. Leggere la lettera di condoglianze inviata dal cappellano del manicomio di Montdevergues a Paul Claudel il 20 ottobre del 1943 per la morte della sorella. Nessun familiare sarà presente alle misere esequie e il suo corpo finirà in una fossa comune. Nemmeno il suo nome sulla lapide, ma l’anno del decesso e il suo numero di matricola: 392.