Arte

Arte e cultura a braccetto nella Maremma

A Roccatederighi si terrà l’evento “Arte memoria e territorio” e sarà presenziato dal pittore De Micheli

La Maremma come simbolo della storia e della pittura, grazie alla presenza dell’artista Gioxe De Micheli. L’evento Arte, memoria e territorio è infatti, un percorso culturale di valorizzazione del passato e, soprattutto, del presente del comune di Roccastrada, iniziato da alcune associazioni locali nel 2019. La rassegna sarà presentata al Centro Civico di Roccatederighi lunedì 22 agosto alle ore 21 dalla Pro loco dell’omonimo comune, con il patrocinio del comune di Roccastrada. Introducono l’argomento, Gilberto Galloni, rappresentante della pro loco di Roccatederighi e la giornalista Lucia Ferrari che presenteranno la serata. Noi di ultimaparola.net abbiamo avuto il privilegio di fare quattro chiacchiere proprio con il famoso artista.

Iniziamo dal titolo: 52 anni in Maremma, le sue parole e le sue immagini. Quanto l’ha ispirata il poema di “Cecco a Fornoli” (uno dei poemetti che De Micheli presenta nella rassegna, ndr) nelle sua pittura?

Sono due cose distinte. La serata vuole ricordare i 52 anni trascorsi in Maremma. Insieme a due amici pittori comprammo questo rudere, che si chiama Arnajo, una vecchia casa colonica, per sfuggire alla città. Erano gli anni ‘70, l’epoca del terrorismo. Volevamo ritrovare una dimensione umana ed esistenziale che non fosse quella della città. Durante la presentazione proietterò una serie di dipinti di quel periodo realizzati quando avevo 22 anni che si ispirano a questo luogo, dove c’è il tema straordinario del paesaggio, che è anche quello della scuola senese di Simone Martini, il tema degli animali, che per chi viene dalla città e non ha rapporto con gli animali, è un tema di riflessione sul nostro rapporto con loro. Quindi, una prima parte della serata dove io mostro questi dipinti e una seconda parte, ispirata alla lingua toscana, per ricordare la tradizione Dantesca, dove si leggeranno alcune poesie tratte dai miei poemi “Cecco a Fornoli” e i “Canti dell’Arnajo”, nati dal mio rapporto con questo paesaggio leggendario.

Di lei hanno già scritto autori noti e intellettuali e della sua pittura metafisica, dove i personaggi che la abitano sono avvolti nel mistero, e collocati in un contesto surreale. Cosa ne pensa?

Le definizioni sono sempre un po’ pericolose, perché ti danno etichette. Ci sono senz’altro nella mia pittura elementi più metafisici. Nessuno nasce imparato. Io amo moltissimo la pittura rinascimentale che ho rivisitato in modo diverso alla luce delle avanguardie, che lasciano il segno. Sono un convinto pittore d’immagine. Una definizione che mi si attribuisce è “realismo magico”, ma non mi convince. Forse la cosa che mi convince di più è l’idea di un’immagine un po’ sognata dove c’è l’ironia e l’elemento poetico. Il pittore è un po’ una spugna. Assorbe tutto e poi la mente e la memoria rielaborano. Ho avuto in epoca giovanile un grande amore per Albrecht Durer. Alla fine degli anni ‘60, feci un ciclo d’immagini interpretando a mio modo, l’acquaforte di questo artista “La dama con il teschio”. Avevo vent’anni e ho iniziato presto a disegnare.

Essere artista è un duro lavoro. Quanto vale l’ispirazione e quanto la tecnica? Lei ha frequentato l’Accademia di Brera, sono stati importanti gli insegnamenti che ha ricevuto?

 Sì, gli insegnamenti che ho ricevuto sono stati assolutamente fondamentali E comunque io ho avuto un percorso un po’ particolare, diciamo al contrario. Sono figlio del noto critico d’arte Mario De Micheli e fin da piccolo disegnavo. Già alle scuole medie, ho avuto modo di frequentare, artisti della scuola milanese un po’ esistenziali. Loro mi avevano fortemente influenzato, nell’espressione e nel segno libero ma verso i diciotto anni ho dovuto rimpadronirmi del disegno. Sono andato in accademia per imparare il nudo, il mestiere e la tecnica. Il mio maestro in Accademia, Gianfilippo Usellini, uomo molto umano e simpatico, non era un maestro pedante, ma correggeva in modo attento l’anatomia corporea, io lo ascoltavo molto.

Per lei dipingere è una necessità o un bisogno?

Posso chiamarlo bisogno, ma più che altro è una vocazione al fare. Disegnare da piacere e soddisfazione. Il bisogno diventa poi mestiere e c’è la quotidianità del lavoro che impone la disciplina. L’ispirazione esiste ma va colta nella quotidianità.

C’è un artista che si avvicina di più alla sua filosofia pittorica?

Ci sono artisti che mi sono cari e si avvicinano a quello che io intendo per opera riuscita in cui il valore poetico si fonde con l’immagine, con la qualità del disegno. Mi piacciono artisti molto diversi tra loro. Esempio amo moltissimo Francis Bacon, che è lontano dal mio mondo poetico, lui è un pittore drammatico, al contempo mi piace Pablo Picasso che è più solare diametralmente opposto a Bacon. Una volta si diceva che i pittori possono essere minatori o contadini, Bacon è minatore e Picasso un contadino. A me piacerebbe essere un po’ uno e un po’ l’altro.

La professione di suo padre, è stata uno stimolo o una sfida a scegliere questa strada?

E’ stato uno stimolo l’ambiente di casa mia, che era frequentata sempre da grandi artisti. Venivano Giacomo Manzù, Ennio Morlotti, i pittori di Corrente (movimento artistico milanese di critici e pittori fondato nel 1938, ndr), gli scultori. Mio papà mi portava negli studi dei pittori, io amavo quegli spazi, l’odore dei colori, e la loro vita inconsueta. Sono stato fortunato, in questo senso. Voleva farmi studiare studi classici ma poi ha capito che ero bravino e volevo fare il pittore. In realtà casa mia era piena di libri. Avevo già l’università in casa. E’ stato anche un padre che mi ha aperto delle porte, i suoi rapporti con il mondo dell’arte, mi ha mi ha dato dei contatti e aveva orrore del nepotismo al punto che non mi ha mai invitato a una rassegna, e non mi ha mai dato un premio. Tuttavia, mi ha invitato una sola volta a una rassegna dal titolo “Arte e mondo contadino”. Comunque, mi ha seguito, veniva in studio, guardava il mio lavoro in silenzio e poi lo criticava. Era molto severo. Lo ascoltavo con attenzione. Ho avuto un bel rapporto con lui, anche se era una personalità molto forte e quasi ingombrante. Solo una ribellione a quattordici anni ma poi a diciotto andai via di casa, a Firenze, per parecchi anni e lui acconsentì.

In Italia l’arte è sufficientemente valorizzata e protetta?

L’Italia rispetto alla Francia e all’Inghilterra è un paese provinciale. Non abbiamo mai avuto mercanti d’arte importanti. D’arte non scrive quasi più nessuno se non rare eccezioni. Si scrive solo per il mercato, altrimenti niente. Ricordo che mio padre, girava per le gallerie d’arte per recensire mostre, che poi pubblicava nella sua rubrica sul quotidiano l’Unità. Aiutava anche giovani artisti e recensiva le loro opere senza farsi pagare. Oggi, non ci sono più molte gallerie ed è vero che i tempi sono diversi, ci sono meno soldi. Da una parte c’è il mercato e dall’altra l’enfatizzazione dell’antico, che va bene, ma dovrebbero aiutare di più i giovani nel realizzare il loro sogno per lavorare come artisti. Questo non è un paese per artisti vivi. La critica, salvo rare eccezioni è prezzolata. Se il linguaggio universale non è più praticato, bisogna allora ringraziare quegli artisti che faticosamente cercano ancora di lavorare.

Qual è il rapporto che vive con la Maremma?

Quando sono qui, non lavoro. Mi riempio di questo paesaggio e non è necessario lavorare. E’ nella mia grigia Milano, che amo tanto, che lavoro e ricordo questo paesaggio. Qui mi ricarico, sento i profumi del mirto, del lentisco e godo di questa vista meravigliosa dalla campagna fino al mare e all’isola del Giglio.

 

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