Arte

Mostra da… rovesciarsi gli occhi

Alla Triennale di Milano, fino al 3 settembre, mostra con 250 opere, realizzate da 49 artisti, rivelano la ricchezza di un periodo in cui gli artisti italiani sono stati tra i più importanti interpreti della trasformazione dei linguaggi visivi

È in corso fino al 3 settembre, proveniente da Parigi, all’interno degli spazi della Triennale di Milano, una mostra che invita letteralmente a “rovesciare i propri occhi”. Reversing the Eye, organizzata in collaborazione con Jeu de Paume e LE BAL di Parigi, a cura di Quentin Bajac, direttore di Jeu de Paume; Diane Dufour, direttrice di LE BAL; Giuliano Sergio, curatore indipendente e Lorenza Bravetta, curatrice per fotografia, cinema e new media di Triennale Milano. Una mostra da non perdere per conoscere le sperimentazioni visive, gli azzardi di idee e visioni imprevedibili, le alchimie, di artisti appartenenti alla più importante avanguardia italiana della seconda metà del Novecento che va sotto il nome di Arte povera (termine coniato dal critico d’arte Germano Celant, considerato il teorico del movimento. Sarà lui a curare la prima mostra collettiva “Arte Povera-IM Spazio”, inaugurata nel settembre del 1967 alla galleria “La Bertesca” a Genova) e che hanno animato la scena artistica italiana in quel periodo inquieto ed effervescente, compreso tra la metà degli anni Sessanta e i primi anni Settanta. Ed è una gioia, di fronte tanti plastificati disperati dogmatismi di cui si nutre bulimicamente il nostro oggi, lasciarsi trasportare, ignari della storia dell’arte, in una dimensione davvero di genialità esplosiva. E toglierci di dosso per un paio d’ore il dramma dell’esistente.

Dicevamo, è l’epoca del boom economico, della crescita urbana, dell’industrializzazione, delle lotte che culmineranno nel ’68 studentesco e nell’autunno caldo nelle fabbriche. In contrasto polemico con la società consumista (emergente) e al “sistema” dell’arte (e alla consueta triade costituita da artista creatore; opera da contemplare negli spazi nobili dell’arte; spettatore che osserva passivamente) questi artisti (certo, ognuno con le proprie ragioni, anche molto diverse tra loro)  sentonol’ esigenza di far uscire l’arte dalla superficie pittorica e portarla nella vita reale, fra la gente, trasformando la vita stessa in un campo di ricerca artistica.

Le mostre tradizionali sono soppiantate da eventi, da happening che portano lo spettatore ad essere al centro della scena e il fulcro attorno al quale ruota l’azione dell’artista stesso. Appropriandosi della forza narrativa della fotografia, del video e del cinema, creano un continuum narrativo. Che scardina, disarciona, traveste e investe di nuovo senso le cose. Che ironizza sulla storia e ridicolizza il sentire codificato. E svela la sottile e porosa membrana tra il vero e il vero simile, il reale e la messa in scena. Con uno sguardo radicalmente diverso, in cui la povertà — intesa come essenzialità- rilegge il presente secondo l’asse di una rivoluzionaria esigenza di libertà. Tra spinta sovversiva ed evasione nella dimensione spettacolare — la cui valenza politica spingeva agli inizi Celant stesso a parlare, nei toni infiammati tipici dell’epoca, di una strategia di “guerriglia” espressamente concepita per collocare il lavoro artistico dentro un più ampio processo di trasformazione del mondo reale. Scrive Celant t, allora ventisettenne. nel manifesto “Arte Povera. Appunti per una Guerriglia” che l’arte povera è impegnata con la contingenza, con l’evento, con l’astorico, col presente, con la concezione antropologica, con l’uomo “reale”.

Cosa ha di particolare questa mostra? Uno straordinario patrimonio di rari documenti resi ora accessibili: fotografie, film e video prodotti dal ‘66 al ‘74, delle azioni performative, e che oggi, prendendo in prestito le parole dello stesso curatore Giuliano Sergio, si sono trasformate in “reliquie”, restituendoci una creazione ricca e sorprendente. E che contribuiscono a far entrare il pubblico nel clima del tempo.  In mostra, ci sono così gli scatti celebri di fotografi come Elisabetta Catalano, Claudio Abate, Luigi Ghirri, Mimmo Jodice, Ugo Mulas fotografi che, grazie alla loro vicinanza e amicizia con gli artisti ne documentano performance e azioni del movimento, spesso ricostruite a posteriori e talvolta nate invece in studio, a porte chiuse. Con un duplice risultato. La fotografia conferisce permanenza ad azioni altrimenti effimere. E al tempo stesso il passaggio del ruolo del fotografo da testimone a creatore di immagini.

Nei vari (rarissimi) video e fotografie presenti in mostra si vede come lo studio e la galleria diventano un luogo di sperimentazione che si trasforma in un palcoscenico teatrale sul quale l’artista si esibisce per rendere protagonista il processo creativo. Prima che la video arte diventasse forma di pensiero performativo. Fra i lavori più emblematici un posto di spicco occupano le fotografie di Claudio Abate (per circa una decade dal 1963 fu il fotografo di scena di Carmelo Bene). Memorabili sono i suoi scatti a Pino Pascali ironicamente a terra in cui lui gira e corre intorno alla gigantesca Vedova blu del 1968 (Questo è stato un po’ un gioco. Lui era uno molto spiritoso, molto allegro, molto vivace. Stavamo lì al Palazzo delle Esposizioni, in via Nazionale, e gli ho detto “Fai il ragno” e “Pino l’ha fatto”, raccontava Abate) fino ad arrivare all’immagine cult dei 12 cavalli olandesi vivi di Jannis Kounellis fatti entrare nella sede della galleria romana L’Attico di Roma per la sua personale del ’69 e li ha legati alla parete.

Si inzia il percorso con i brevissimi filmini (archivio Istituto Luce) che con ironia ricalcano i cinegiornali e il vaudville, di  due storiche perfomance di Pietro Manzoni, spirito libero e irriverente, fra i primi a intendere l’arte come evento, momento effimero di rappresentazione irripetibile tal quale.  Fiato d’artista, palloncini gonfiati dall’artista stesso, Consumazione dell’arte dinamica del pubblico. Divorare l’arte, svoltasi alla galleria Azimut di Milano nel luglio 1960. In una cerimonia rituale l’artista, dopo aver fatto bollire numerose uova, le ha timbrate con la sua impronta digitale, e dopo averne consumate diverse, invitò il pubblico a mangiarne. Ancor’oggi appaiono rivoluzionarie e potrebbero tranquillamente essere proposte, per modernità reale, in gallerie di ogni dove. Momenti giocosi di condivisione, dunque, non solo metaforicamente, ma anche realmente in cui ci “nutriamo” della sua arte. Nella metà degli anni Sessanta, Michelangelo Pistoletto realizza con vecchi giornali bagnati e pressati, una palla di circa un metro di diametro, la Sfera di giornali. Nel dicembre 1967, nell’ambito della mostra collettiva “Con temp l’azione”, che si svolge contemporaneamente in tre gallerie d’arte torinesi, la sera dell’inaugurazione Pistoletto realizza una performance nota come Scultura da passeggio. La Sfera di giornali viene fatta rotolare lungo il percorso che unisce le tre gallerie da Pistoletto insieme ad alcuni altri artisti e passanti occasionali.

Fra i tanti altri autori impegnati a documentare le azioni e le opere degli artisti – c’era pure la serie di fotografie scattate da Ugo Mulas (1964), in cui ritrae Lucio Fontana, di spalle, chinato sul celebre taglio come se l’avesse appena tracciato sulla tela. Una mise en scène perfettamente architettata. Fontana era decisamente contrario a essere ripreso durante la creazione delle sue opere. ”Ho bisogno di molta concentrazione. Cioè non è che entro in studio, mi levo la giacca, e trac! faccio tre o quattro tagli”. Ma allora come nascono le fotografie di Mulas? ”Ho pregato Fontana di fingere di fare dei tagli”, spiega Mulas nel suo libro La Fotografia.

Montata tra due plexiglass, la celebre foto di Elisabetta Catalano, grande ritrattista del mondo della cultura e dello spettacolo, che immortala Lo scorrevole (1973) di Vettor Pisani, visionario architetto, pittore e commediografo. Una singolare performance ricostruita in studio interpretata dalla modella Monica Strebel, nuda, agganciata tramite un collare di cuoio a una carrucola che scorre su un cavo d’acciaio teso tra due pareti, colta in una forma di liberazione-elevazione verso l’alto. Convergono rimandi alle opere di Marcel Duchamp, Georges Bataille e Antonin Artaud, in una congiunzione fatale di Eros e Thanatos. Ma anche una elevazione mistica della parte femminile, la psiche, l’anima imprigionata nel corpo.

Gino De Dominicis, artista misterioso e raffinato, realizza due performance immortalate in video da Gerry Schum (1970). Nel primo caso l’artista viene filmato mentre lancia nel fiume una serie di pietre nel vano tentativo di generare nell’acqua quadrati al posto dei classici cerchi. Nel secondo viene ripreso mentre corre, piega le ginocchia e sbatte le braccia nella speranza malriposta di spiccare il volo. In entrambi i casi, lo spettatore vede De Dominicis di spalle. Il carattere paradossale della performance sottende però contenuti di stampo filosofico onnipresenti in De Dominicis.  L’intento dell’artista è quello di superare i limiti delle leggi di natura, di ribellarsi ai diktat della fisica o perlomeno di prendersene gioco. Perfetto esempio di quel voler “gettare alle ortiche ogni discorso univoco e coerente” (Celant).

Arriviamo all’opera-icona di Giuseppe Penone Rovesciare i propri occhi (1970) che dà il titolo della mostra: Rovesciare gli occhi. Penone fa confezionare delle lenti a contatto specchianti, le indossa e si fa fotografare da Claudio Abate.  Una fotografia ravvicinata del proprio volto, con al posto dell’iride due cerchi di luce metallica che riflettono il paesaggio che gli sta davanti, e che lo spettatore può intravedere nello specchio delle sue lenti. Resosi cieco, l’artista può finalmente “vedere”. Dalle immagini che un artista riceve a occhi aperti nasce il lavoro. “In questo modo era come rimandare immediatamente il lavoro all’esterno”. Così l’artista in un’intervista.

Sono gli osservatori a fare i quadri, sosteneva Duchamp, perché vi sono dentro, vi sono immersi, attratti dalla domanda che l’opera pone e che l’opera è: metafora, allegoria, simbolo. Questa fluidità tra passato e presente/futuro, tra chi guarda e chi è guardato, tra spettatore e autore, si ritrova nell’opera di Giulio Paolini: Giovane che guarda Lorenzo Lotto (del 1967,) riproduzione fotografica di un celebre dipinto di Lorenzo Lotto (il Ritratto di giovane). Ruolo centrale è occupato dalla fissità affascinante e concentrata dello sguardo del giovane e dal titolo che crea uno sfasamento. A un certo punto non sappiamo più distinguere se siamo noi a guardare l ‘opera o  è lo sguardo del giovane ritratto, rivolto verso l’obiettivo, a scrutare noi osservatori contemporanei e che nel 1505 doveva trovarsi di fronte a Lorenzo Lotto e osservarlo.  Vertigine pura.

Grandi lastre di acciaio inox lucidato a specchio sulle quali è applicata un’immagine, dipinta su carta velina, ottenuta ricalcando una fotografia ingrandita a dimensioni reali. Collocate ad altezza del pavimento. I “quadri specchianti di Michelangelo Pistoletto (esposti per la prima volta nell’aprile del 1963 in occasione di una mostra personale alla galleria Galatea di Torino) aprono voragini percettive.  Creano, di fatto, opere che “rovesciano lo sguardo”, in cui opera e spettatore “si riguardano”. Personaggi, visti spesso di spalle, sembrano invitarci a osservare ciò che ci sta di fronte, ma appena proviamo a “seguire” il loro sguardo ci troviamo davanti a noi stessi e alla realtà che si muove attorno a noi.

Entrare nell’opera (1971) è uno dei lavori più emblematici di Giovanni Anselmo. L’artista colloca una fotocamera su un cavalletto puntando l’obiettivo verso il prato che gli sta davanti, scegliendo la modalità dello scatto ritardato. Poi preme il pulsante e inizia a correre, dando le spalle all’obbiettivo. Nella giganteggiante fotografia Giovanni Anselmo, piccolo al centro di questo grande telo, corre libero e vitale in mezzo alla natura fino a spingersi oltre i confini dell’io: verso l’inesplorato della mente, la totalità, l’infinito. Una immagine che restituisce una sensazione di onnipotenza e di felicità dell’artista. Ma consente anche a noi osservatori di entrare con lui nella natura e di identificarci con l’azione dell’artista.

Esposizione in tempo reale n°4, lascia su queste pareti una traccia fotografica del tuo passaggio di Franco Vaccari, fu uno dei maggiori successi della Biennale veneziana del 1972. L’artista collocò una banale cabina per fototessere all’interno dello spazio espositivo, lasciando le pareti intorno vuote, invitando i visitatori a farsi immortalare dall’obiettivo automatico in una striscia fotografica di quattro fototessere e incollarle poi al muro. L’invito viene accolto entusiasticamente. Durante l’esposizione le pareti si riempiono di migliaia di strip accostate le une alle altre in un variegato catalogo di volti, di smorfie e di espressioni. Ogni singolo scatto interagisce organicamente con l’insieme di cui è parte e realizza nel complesso un variopinto mosaico di tasselli narrativi ed emozionali.

il Viaggio di Ulisse (1969). Immagini di un tempo sospeso. Un vecchio barcone si staglia all’orizzonte marino. Sulla poppa distinguiamo la sagoma buia di un uomo. A una prima lettura, la foto ci restituisce una sensazione di solenne immobilità. Dopo un’analisi più attenta, ci accorgiamo della scia bianca che segue la mole dell’imbarcazione e taglia l’oscurità del mare: si tratta di un peschereccio in movimento. Dove è diretto? Chissà. Lo scatto è di Mimmo Jodice che immortala Jannis Kounellis dal golfo di Napoli per il Manifesto della mostra alla Modern Art Agency del 1969.  Il rumore del mondo appare lontano ed insignificante davanti alle opere del fotografo napoletano e sembrano aprire un varco all’eternità. Immaginiamo il fotografo (e noi con lui) fermo davanti al mare, libero di perdersi nell’orizzonte, ma anche nei meandri della memoria. Come se il tempo, reduce da una lunga e faticosa camminata, avesse deciso di fermarsi. Di autosospendersi. Un tempo ampio tanto da poter consentire lo smarrimento e l’attesa.

Uscendo dalla mostra, storditi ed eccitati dalla originalità di queste opere che sollecitano nuove emozioni, inattesi pensieri, contagiati dalla euforica voglia di sperimentare di questi artisti liberi di immaginare, proviamo allora a chiederci, a cominciare dalla bulimica narrazione di oggi affidata ai selfie e ad Instagram: cosa vediamo, se “rovesciamo i nostri occhi?”.

Triennale Milano – Galleria

Viale Emilio Alemagna 6, 20121 Milano (MI)

 

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