Arte

Realtà è meditazione

Nella suggestiva cornice di Palazzo Reale di Milano è in esposizione la collezione più completa dedicata al "Realismo Magico"

Si è colti davvero da autentico incantamento e da una sottile inquietudine, davanti agli oltre 80 capolavori esposti a Palazzo Reale. La mostra è la più grande e completa dedicata al Realismo magico, promossa e prodotta dal Comune di Milano in collaborazione con 24 ORE Cultura (visitabile fino al 27 febbraio 2022).

Occasione imperdibile per vedere riuniti artisti come Felice Casorati, Carlo Carrà, Giorgio De Chirico, Mario Sironi, Ubaldo Oppi. E ancora Achille Funi, Cagnaccio di San Pietro, Mario e Edita Broglio, Antonio Donghi (solo per citarne alcuni). Recuperando la definizione di Realismo Magico (Magischer Realismus), data nel 1925 dal celebre critico d’arte tedesco Franz Roh a un movimento di portata transnazionale, il percorso espositivo ripercorre l’avventura di una affascinante stagione artistica italiana- forse meno nota, – schiacciata tra Futurismo, Metafisica e gli anni Venti e Trenta del Novecento.

Sembra un paradosso parlare di magia e di realtà insieme, ma proprio su questi due termini si gioca questo momento straordinario dell’arte italiana del ‘900. La realtà è infatti punto di partenza di un processo di “smaterializzazione”. Dopo l’esuberanza sfrenata, prepotentemente eversiva delle avanguardie artistiche maturate nell’ante-guerra (Espressionismo, Cubismo, Futurismo, Dadaismo), dopo la tragica esperienza della Grande Guerra, si apre per gli artisti un periodo di riflessione.

Si cerca un ritorno all’ordine e all’equilibrio, e ai valor plastici individuati come possibile risposta al caos culturale e all’inquietudine di quegli anni. Punto di riferimento un certo tipo di pittura del passato, quella serenità geometrica del Quattrocento. In particolare le geometrie purissime di Masaccio, Giotto, Piero della Francesca. Su queste basi innestarono poi il gusto Déco tipico dell’epoca e il seme del perturbante della Metafisica.

Una quieta narrazione, dove non c’è dramma, non c’ è azione, caratterizza, a prima vista, i dipinti. Ma se guardiamo più attentamente, il senso di quiete che si percepisce a una prima occhiata è infatti solo apparente. Grazie a minimi accorgimenti, le atmosfere enigmatiche e il senso di sospensione rompono la verosimiglianza e generano una percezione paradossalmente straniante e irreale. Lo sguardo dei personaggi è spesso orientato verso un punto lontano, non visibile, esterno allo spazio pittorico. In attesa non si sa di chi o cosa. Le tele sono come Annunciazioni di un mistero che sembra sul punto di compiersi, anche nei momenti di più banale quotidianità.

Dieci capolavori che valgono da soli una visita alla mostra.

La mostra accoglie il visitatore con un capolavoro assoluto: l’enigmatico e monumentale Ritratto di Silvana Cenni (nome d’invenzione) che Felice Casorati che viveva a Torino dipinse nel 1922. Un’opera tutta fatta di equilibri, di pochi gesti e pochi segni. Nonché di una cromia giocata su poche tonalità controllate e opalescenti e che ruota tutto attorno al silenzio, alla calma, alla fissità di tutta la scena.

La posa ieratica e immota, con gli occhi chiusi, le pieghe pesanti del drappo, che occulta la sedia su cui è accomodata la donna, rendendola simile ad un trono, rimandano inconfutabilmente alla Madonna della Misericordia di Piero della Francesca.  Sparpagliati prospetticamente a terra gli oggetti: i libri antichi, i cartigli, i rotoli di carta. Sono le cose stesse a parlare, anzi a tacere. Sul fondo, la finestra aperta lascia intravedere l’essenzialità incorruttibile dell’architettura della chiesa del Monte dei Cappuccini di Torino. E’ il fermo immagine di un mondo slittante fra reale ed eternità.

Di Mario Sironi, il pittore di cui Pablo Picasso disse: “Avete un grande artista, forse il più grande del momento e non ve ne rendete conto”, possiamo ammirare due capolavori, per la prima volta affiancati e messi in intrigante confronto. L’architetto, esposto alla Biennale di Venezia del 1924, ha il volto che sembra intagliato nel legno, la veste come scolpita nel marmo, le mani trasformate in blocchi recisi di netto che stringono il compasso. Lo straniamento trapela però dallo sguardo assorto dell’uomo che non guarda i fogli davanti a sé ma fissa un orizzonte più vasto, più lontano. Una sorta di autoritratto.

L’allieva (1924), quadro strabiliante. Vi è un’implosione interna, non visibile all’occhio umano ma percepibile dall’inconscio. Colpisce l’immobilità della scena che è satura di mistero e di una sorta di inquietudine. Una giovane donna a mezza figura voltata di tre quarti. Una statua antica sullo sfondo e un’anfora in primo piano. Solo due colori: il nero della maglia, dei capelli e degli occhi e l’ocra per la pelle. E si vanno a confondere con lo sfondo piuttosto cupo e spento. Solo l’ovale del volto è pienamente immerso nella luce.

Sironi ha la capacità di evocare qualcosa di innominabile che sta oltre il dipinto stesso. Il centro della scena è lei. L’ allieva è lì con lo sguardo fisso. Persa in un vuoto lontano, in un “altrove” che esce fuori dal confine del quadro e che resta a noi ignoto. Assorta nei propri pensieri. E la mente di chi osserva non concede una tregua alle domande. A cosa sta pensando? Forse sta osservando qualcosa che sta al di fuori del nostro campo visivo? Forse sta aspettando qualcuno? C’è da chiedersi se è successo qualcosa o se qualcosa accadrà. Spetta a noi immaginare la storia che non racconta. Una storia forse ancora da scrivere. E alla fine ci identifichiamo, perché a tutti sarà capitato un attimo del genere.

Le figlie di Loth del 1919 di Carlo Carrà (nato nell’Alessandrino, nel 1881, giovanissimo si trasferisce a Milano, dove muore nel 1966, all’Accademia delle Belle Arti di Brera aveva tenuto la cattedra di pittura). il racconto biblico viene identificato solo attraverso il titolo, poiché nessun dettaglio fa pensare che le due figure femminili siano le figlie di Loth. Due giovani donne (una in piedi sulla soglia mentre l’altra a destra è inginocchiata) bloccate in un’immobilità misteriosa, tra di loro uno snellissimo cane. Un paesaggio scarno con due colline pietrose e un cielo azzurro che accentua l’atmosfera di atemporalità e di mistero.

La struttura fortemente geometrica, la spazialità spoglia, i colori intensi e la costruzione austera delle due donne e dell’animale sono elementi ispirati chiaramente agli affreschi e alle tavole giottesche. Carrà smaterializza lo scabroso episodio biblico. I corpi delle figure sono semplificati e ricondotti a forme geometriche idealizzate. L’atmosfera è enigmatica, bloccata in una immobilità misteriosa. Il pino sul mare è un altro celebre dipinto di Carlo Carrà (1921).

Più lo si guarda, più si rimane affascinati, conquistati e quasi avvolti dalla sua atmosfera rarefatta, misteriosa. Non ci sono presenze umane, solo un pino marittimo dal tronco liscio e nudo, piegato dal vento, un panno bianco, steso ad asciugare, appoggiato su un cavalletto. Tutta luce e chiarità mattutina e respiro del mare e dell’aria e del sole, da cui emana un’aura indefinibile di malinconia e di dolcezza. Ma la vera, segreta , protagonista del dipinto è il senso dell’ attesa. L’attesa che qualcosa avvenga, l’imminenza come di una rivelazione. Forse il silenzio finirà e quell’ordine fatto di pochissimo, quasi di nulla, non sarà più.

Il colore smagliante dell’abito blu cobalto esplode in un colpo d’occhio e rapisce lo spettatore. Siamo davanti al Ritratto della moglie sullo sfondo di Venezia, dipinto da Ubaldo Oppi (Bologna 1889-Vicenza 1942), protagonista assoluto di quegli anni. Baldanzoso, bello e aitante soprannominato Antinoo (praticava il pugilato e il football), ma anche ardimentoso combattente quando scoppia la guerra; a Parigi conosce Modigliani, ha un flirt con Fernande Olivier, la modella con gli occhi a mandorla che lascia Picasso per fuggire con lui.

Rientrato a Milano nel 1921 si sposa con Adele Leone detta Dehly o Dhely (figlia di banchieri, moderna, colta, musicista, pittrice anche lei) e ne fa la sua musa. Nel dipinto l’amata moglie domina la scena, distaccata nella sua algida bellezza, trasfigurata in un’atmosfera di magia iperrealista, dominata dal blu, dello sguardo, del mare, del cielo, dell’abito, degli anelli e dell’orecchino; si intravedono persino le piume sulle maniche dell’abito. Presenza immobile che dà la sensazione di voler essere altrove. Sullo sfondo il paesaggio lagunare: si intravede la fondazione Cini e le gondole che passano.

Ancora di Ubaldo Oppi Le amiche esposto alla Biennale del 1929 ebbe un successo dirompente. La bellezza del dipinto viene esaltata dai toni freddi giocati su una gamma di pochi colori che danno forma alle figure. Due donne, fasciate in abiti di seta azzurra e blu con grazia di statue antiche, si abbracciano. In un’algida compostezza di impronta quattrocentesca e rinascimentale. Una ambiguità indecifrabile aleggia, raggelando le figure. Una complicità più allusiva e sfuggente. La statua antica di un’amazzone si erge fiera alle loro spalle. E il gioco dei rimandi continua, come in uno specchio. Chi sono queste due amiche se non l’immagine della stessa donna con la sua luce e ombra? Cosa avranno da dirsi? Quali segreti nascondono?

Dei dipinti di Mario Broglio (scrittore, pittore, scultore ed editore, fonda e drige la rivista d’arte Valori Plastici Insieme alla moglie Edit) resta impressa la ieratica fissità, nelle pose come negli sguardi, delle figure femminili ne Il romanzo (1939). Due fanciulle in costume e cuffia, ritratte in un momento di pausa dal nuoto. Si tratta di uno stile secco, asciutto, lineare, che rimanda ad una dimensione sospesa, congelata dell’azione.

Tuttavia il loro modo di stare all’interno dello spazio pittorico è decisamente mutato e lascia intuire i processi di emancipazione femminile in atto nella società del tempo: si tratta di donne colte, sempre più autonome. Che hanno pieno diritto di occupare una dimensione pubblica dei luoghi, donne che escono la sera, che viaggiano sole, che lavorano. Non si tratta, dunque, di sguardi che sondano vacuamente il vuoto, ma di occhi che si rivolgono in modo fermo e diretto verso il mondo esterno. Interpellandolo.

Unica artista donna presenta alla mostra è Edita Walterowna Broglio. Nata nella cittadina baltica di Smiltena nel 1886, fuggita dalla rivoluzione russa del 1905, riparata in Germania, si stabilisce prima a Parigi nel 1910 e poi nel 1912 definitivamente in Italia, a Roma, dove conosce il futuro marito Mario Broglio. E in simbiosi artistica apre un atelier.

Un’ideale di purezza cristallina, d’immobile trasparenza domina la sua pittura, rigorosamente composta. Senza azioni umane. Edita raffigura infatti soprattutto oggetti: Le scarpe, Gomitoli, Bottiglie con delicatezza e colori slavati, come se riaffiorassero da lontano. Concreti, ma fuori del tempo. Bottiglie è del 1927, cinque boccette trasparenti e una piccola scatola tonda poggiata su un tavolino da toilette, richiamano Giorgio Morandi.

La materia pittorica di Morandi, però, è densa, quella di Edita fluida e trasparente. Merita menzione anche Ritratto su sfondo di tarsia (1938) in cui la maniacale precisione dei dettagli, la gelida fissità del volto statuario della figura femminile, conferisce al reale un paradossale effetto straniante.

Il percorso espositivo si chiude con la monumentale composizione de L’alzana (1926) del ribelle veneziano Cagnaccio di San Pietro (il cui vero nome era Natalino Bentivoglio Scarpa, prese come nome d’arte quello di Cagnaccio, perché suo nonno aveva un cane che faceva paura a tutti, a cui poi aggiunse anche il nome del luogo a cui era più legato: il borgo di San Pietro in Volta, nell’isola di Pellestrina, la striscia di terra che chiude la laguna di Venezia).

Per dirla con la parole di Vittorio Sgarbi, Cagnaccio non dipinge, scolpisce. La tela è imperniata sulle due grandi figure maschili in primo piano che trainano in secco un gigantesco barcone galleggiante. I due giovani esprimono lo sforzo nei muscoli gonfi e nei tendini tesi, nelle vene dilatate sul fisico asciutto, coperto solo con braghe colorate a righe e a quadretti. Li assiste dall’alto della carena un’immagine votiva, una Pietà. Da quelle figure davanti al mare sale un silenzio assordante.

È una tensione che genera un’immagine indimenticabile nella sua essenzialità, nel realismo dei dettagli. Quel loro spaventoso sforzo, è così realistico da apparire paradossalmente irreale. Assurdo. E diventa la metafora delle nostre fatiche, delle irriducibili fatiche della vita. Il Realismo magico, con Cagnaccio si fa “un realismo duro, di vitrea verità. Spietato”.

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