Schegge di memoria

Ancora poche settimane per vedere la mostra di Remo Bianco al Museo del Novecento, promossa dal Comune di Milano, a cura di Lorella Giudici e in collaborazione con la Fondazione Remo Bianco. Grazie alla Fondazione, costituita nel 2011, la mostra è corredata da un’esaustiva documentazione d’archivio fatta di scritti, opere e fotografie. Il presidente, Riccardo Gianni, ricorda che la mostra al Museo del Novecento è l’occasione per ripresentare l’opera dell’artista nel luogo in cui è nato, vissuto e in cui ha creato. La Milano negli anni del secondo dopoguerra è stata la città del boom economico, dove si sono realizzate importanti innovazioni artistiche. Pensiamo a Lucio Fontana e Piero Manzoni, che hanno contribuito a far conoscere Milano in ambito culturale internazionale.
In questa atmosfera si colloca Remo Bianco, cui si cerca uno stile e anche un movimento artistico che può essergli attribuito ma che è quasi impossibile da fare. Attraverso il percorso espositivo si può capire e sentire tutta la ricerca concettuale ed emotiva dell’artista. Dalle opere che l’hanno reso più noto, i famosi Tableaux dorés, l’Arte Improntale, per cui scrive un Manifesto, e i Quadri Parlanti.

Lui stesso si racconta così:
“Quello che mi capita è di non esaurire completamente un periodo. Sto cercando in un campo e mi appassiono in un altro e allora interrompo questo e incomincio quello e poi a distanza di anni riprendo. […]”.
Questa è la vera esasperazione creativa dell’artista: sperimentare sempre e non fermarsi mai a uno stile a un’idea e a un modo di essere. A questo proposito, Pierre Restany, noto critico d’arte francese, scrive: “Non dimentichiamo che Remo Bianco si è formato nel dopoguerra alla scuola dello Spazialismo Milanese di Lucio Fontana e Carlo Cardazzo, ricavandone lezioni di energia ed eclettismo – sinonimi di libertà”.
E’ da Lucio Fontana, padre del Movimento Spazialista e autore del Manifesto Bianco che si delineano le idee rivoluzionarie del concetto di “tempo”, “materia” e “segno grafico”. Lo spazio della tela non è più lo spazio che può contenere solo l’immagine ma esistono altre possibilità. “Io buco e taglio la tela, da lì passa l’infinito” confermerà in un’intervista Lucio Fontana. L’arte diventa concetto. Spazio filosofico.
Forse l’altra lezione concettuale che Remo Bianco avrà tratto dal suo primo maestro, Filippo De Pisis, sarà sempre il senso del “tempo”. Il primo lo interpreterà con le sue veloci pennellate impressioniste e le composizioni simboliche, che cercano di catturare l’attimo fuggente, Bianco, invece lo esorcizzerà conservando gli oggetti del quotidiano in minuscoli sacchetti appesi alla tela. Un modo diverso di sentire il tempo che passa, e di carpirne il significato.

Il percorso espositivo si apre nelle prime sale con il ciclo dei lavori più noti dell’artista, i Tableaux Dorés, del 1957. Ancor più degno di nota è il ciclo che rappresenta le “Impronte”, calchi di gesso, cartone pressato o gomma ricavati dai segni lasciati da un’automobile sull’asfalto, o da tracce di oggetti comuni, come giocattoli o altri attrezzi. Per questo ciclo l’artista esprimerà i suoi concetti nel Manifesto dell’Arte Improntale del 1956. Molto interessante è anche la sua ricerca che si esprime nei collage
eseguiti con ritagli di carta e stoffa applicati su carta e tele composte da sacchettini in plastica disposti in file ordinate e riempiti di oggetti di uso quotidiano che chiama “Testimonianze”. Oggetti che abbiamo usato anche da bambini, impressi in un angolo della memoria più sensitiva e meno razionale e che ci riconducono alle nostre azioni, ai nostri momenti vissuti, alla nostra storia personale. Forse è questo che l’artista ci vuole comunicare: i momenti effimeri della nostra vita, dovrebbero essere impressi nella tela, come impronte sul terreno, per ricordarci da dove veniamo, chi siamo, dove andiamo. “La mia pittura – commenta Bianco -, si concentra sul “Particolarismo”, è una specie di negozio per le vendite al dettaglio, mi concentro, sul frammento”.

Dello stesso periodo, tra il ’56 e ’58, sono anche il ciclo di opere tridimensionali. Una ricerca molto intensa per l’artista che si avventura anche qui, in un modo nuovo di comunicare. La “visione tridimensionale della tela”. La realizza utilizzando materiali differenti come plastica, legno e lamiera ponendoli su piani alternati che ne esaltano la profondità.
Il percorso espositivo si apre nella parte finale a una serie di piccole sculture racchiuse in teche trasparenti. L’artista, a distanza di un decennio ritorna sul tema del “tempo” e del ricordo, in cui rappresenta dei veri e propri teatrini poetici ricchi di oggetti che provengono dal mondo dell’infanzia e che ricopre di una polvere bianca che simula la neve. Quella neve che conosciamo, che cade silenziosa, che ovatta i suoni e ricrea le forme.

Infine le “Pagode” tra foglie d’oro, collage e progetti visionari che realizza dopo un lungo viaggio in Persia, e subito dopo l’esposizione di queste opere a Venezia, raccoglie elementi sonori con un semplice registratore durante il Festival del cinema che ricorda così: “Ho raccolto impronte sonore della città, mi serviranno per il mio progetto”.
E’ il primo passo verso i “Quadri Parlanti” che Bianco realizzerà l’anno successivo nel 1962. Il tema è ancora il ricordo ma questa volta è ancora più potente, perché si fa sonoro. Bianco allestisce una semplice tela neutra o un’immagine fotografica affiancata da un registratore e casse acustiche che si attivano al passaggio dello spettatore. L’invito dell’artista è raccontare e invitare all’ascolto, oltrepassando i limiti della stessa arte pittorica. “Non è la figura fisica che va ritratta, ma è il racconto di un’esistenza che va registrato”. Precorrendo in questo senso la video arte di oggi e la multisensorialità e multidisciplinarietà, cui ci stiamo lentamente abituando.
Fino al 6 Ottobre 2019
Milano, Museo del Novecento, Piazza del Duomo 8,
Info: www.museodelnovecento.org