Teatro

Parole nell’aldlilà

E' in scena al Litta delle MTM, fino al 24 giugno, nello spazio della Cavallerizza, un'altra perla dell'indimenticato Testori, "Conversazione con la morte"

In un angolo, un uomo è seduto su una sedia, elegante e ieratico, e osserva il suo pubblico mentre prende posto. Ai lati, muri con i mattoni lasciati scoperti. Il gocciolio d’acqua incessante che cade da tubature arrugginite. Su un tavolaccio da obitorio, che corre lungo la platea, è adagiato un lungo telo bianco, che si fa sudario di morte e insieme grembo che accoglie. Poi si spengono le luci e l’azione ha inizio. “Vieni avanti, su, / Non aver paura. Entriamo ancora una volta / nel nostro triste, umido eppur così tenero sottoscala”. Protagonista del monologo è un vecchio attore molto malato, che esce dall’ospedale per calcare ancora, per l’ultima volta, le tavole di un palcoscenico, e dare voce alle sue parole di verità. E’ quasi cieco, segnato dalla morte della madre e da quella dell’amico discepolo, e riflette su quello che è stato e su quello che non potrà più essere, dialogando con una capretta immaginaria. Parla, invoca, prega, si sfoga con lei, la morte, che si staglia lungo la linea di orizzonte del nostro essere al mondo, la regina di tutte le paure, di tutti gli abbandoni.

Dopo Cleopatras (andato in scena al Teatro Franco Parenti di Milano e che abbiamo recensito su queste pagine) è in scena al Litta delle MTM (fino al 24 giugno) nello spazio della Cavallerizza, un’altra perla di Giovanni Testori (Novate Milanese, 1923 – Milano, 1993) Conversazione con la morte, con la suggestiva regia di Mino Manni (attore e regista piacentino, 54 anni, dal 2021 dirige il Teatro Verdi di Fiorenzuola) aiutato dalla collaborazione di Marta Ossoli,  l’interpretazione splendida di Gaetano Callegaro e il gioco sapiente delle luci di Fulvio Melli. E’ un testo del 1978, che Testori ha scritto dopo la morte della madre amatissima, pensato per l’attore Renzo Ricci che non fece in tempo a recitarla in teatro perché morì, e allora fu lo stesso autore a darne una lettura al Teatro Pier Lombardo (oggi Teatro Franco Parenti) il 7 Novembre 1978, in una serata memorabile. Fra teatro e liturgia, una meditazione serena e dolorosa insieme, per fare apprendere «ai dissennati e inconsueti uomini di oggi, che tutto fanno dimenticare, che la morte si può anche amare come una dolce compagna».

Non c’è scampo, la parola poetica di Giovanni Testori ci riporta sempre là dove non vorremmo essere. A vedere, capire o sentire quello che disturba, spiazza. E non vorremmo sentire. E lo fa avanzando con quel suo ritmo pacato, implacabile, inesorabile. Come il gocciolare dell’acqua, “sostanzializzazione del tempo che scava, cancella e diventa “memento mori”, come si legge nella nota di regia.

Gaetano Callegaro appoggia le parole su una recitazione che, pur se in crescendo, è priva di enfasi. Nella potenza di una vocalità sottile, quasi sussurrata, l’unica possibile per raccontare ciò che è prossimo all’essere irraccontabile: l’incontro con la morte. I suoi gesti rallentano, si coagulano in piccole azioni. Si siederà a tratti sulla sedia, in altri momenti sui gradini che conducono al palcoscenico, si stenderà abbracciando il lenzuolo steso sul tavolo (che simboleggia la madre morta) strisciando su di esso, a meno di un fiato dallo spettatore. Quel lenzuolo che porterà via con sé quando si avvierà verso l’uscita posta in fondo al palcoscenico mentre reciterà le ultime battute. E intravede la luce in fondo al tunnel. Là dove tutto ebbe inizio, l’attende la morte come madre che accoglie, grembo di una nuova rinascita. Ci si porta dentro, una volta fuori dalla sala,  l’emozione di avere condiviso una preghiera, laica profana poco  importa, rivolta all’Assoluto. Il bisogno di far pace con la vita e la morte, grati di ciò che si è avuto, perdonando ciò che non si è potuto avere o non si è potuti essere.

Con il regista Mino Manni, presente in sala, approfondiamo alcuni temi.

Che cosa l’ha colpita di più di questo testo di Testori?

La cosa principale è la parola. Una parola poetica che sfida la non dicibilità. Ma ha anche una potenza quasi concreta. Ho divorato “Conversazione con la morte” quasi fisicamente e le parole del testo hanno cominciato a vibrare dentro di me, a farmi compagnia, a risuonare in modo struggente con una vita prorompente e purificatrice sebbene quelle parole fossero “portatrici di morte” e, ancora istintivamente, ho cominciato a sviluppare idee, suggestioni, riflessioni fino ad immaginare uno spazio, un luogo dove mettere in scena quelle parole.

A rendere evocativa la messa in scena è sicuramente anche la scelta dello spazio scenico: La Cavallerizza del teatro Litta di Milano

Piccola ma molto suggestiva, con mattoni a vista, ricavata da quelle che furono le scuderie del Palazzo Arese Litta in corso Magenta. Volevo uno spazio che non fosse solo un teatro ma una sorta di chiesa benedetta e al tempo stesso maledetta, consacrata forse proprio dalle parole di Testori, dove l’altare diventa un tavolaccio da obitorio, come se fosse una sorta di rito liturgico. Quindi lo spazio deve essere ovviamente molto più intimo, non può essere fatto in un teatro classico all’italiana con palco e platea.

Non è facile parlare della morte. Fa paura, non vorremmo mai sentirla vicina

La morte è il grande tabù dei nostri tempi. Da un lato, la morte è ostentata in tutti i modi, va in scena sulle prime pagine dei giornali e nei notiziari tv (dalla pandemia alla guerra in Ucraina fino ai terremoti e alle catastrofi). Sta diventando un’esperienza mediatica, artificiale, distaccata, spettacolarizzata. Anche questo è un nascondimento della morte. Dall’altro, viviamo come se la morte non facesse parte della vita, la rimuoviamo, la neghiamo come processo naturale. Quel che si fatica ad ammettere è che la vita, di per sé, è destinata ad avere una fine. Con i progressi della medicina e della tecnologia, rincorriamo un’eternità terrena che non esiste.

Perché è così importante parlarne, della morte?

 Testori si rivolge alla morte come lo si fa con una compagna “…tu la mia unica, / dolcissima compagna; / potrei dire la mia unica, dolcissima amante / se, coi miei anni, la parola / non si tingesse d’un riflesso d’ironia”. Vita e morte sono due misteri, intrecciati uno nell’altro. Solo la morte insegna a non sprecare la vita. Lungi dal gettare sulla vita un’ombra angosciosa, questa consapevolezza della morte ci obbliga a porci la domanda fondamentale circa il senso della nostra esistenza. E conseguentemente, spesso, a trasformarla, puntando energicamente verso ciò che davvero conta per noi e ci sta a cuore. “Di questa vita cosa ne facciamo?” è la vera domanda.  Una vita vera, vissuta e non sprecata.

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